ALH84001, il meteorite marziano farcito di batteri (fonte: NASA/JSC).

L’annuncio dato dalla NASA in una conferenza stampa nell’ormai lontano 7 agosto 1996 era sicuramente di quelli in grado di “far tremar le vene e i polsi” a moltissime persone, e non solo a chi si occupa di bioastronomia per professione o per hobby: in un meteorite di origine marziana ci sarebbero resti fossili di batteri!
ALH84001 è ora una sigla conosciuta da tantissimi addetti ai lavori e no, e sta a significare una possibilità concreta di vita in un mondo diverso dal nostro. Ma le cose stanno effettivamente in questo modo? Si tratta effettivamente di fossili di “marziani”?

BREVE STORIA DI ALH84001

Circa 4.5 miliardi di anni fa, su Marte si verificavano gli stessi processi di formazione planetaria che hanno coinvolto anche la nostra Terra: da un aggregato di planetesimi andava prendendo forma, per raffreddamento progressivo della crosta, il quarto pianeta del Sistema Solare, anch’esso sottoposto all’incessante bombardamento di comete e meteoriti che ha caratterizzato il primo miliardo di anni di vita dei pianeti della stella Sole. Circa 4 miliardi di anni fa, poi (datazione eseguita con il metodo Ru/Sr), l’impatto di uno di questi corpi sulla superficie del pianeta, precisamente nell’emisfero sud (quello geologicamente più antico perché scarsamente “popolato” da edifici vulcanici che, con la loro lava, avrebbero potuto coprire lo strato geologico originario), ha estesamente fratturato la roccia da cui il meteorite ha avuto origine, “arricchendolo”, allo stesso tempo, di olivina e maskelinite (rispettivamente [(Mg, Fe)2SiO4] e NaAlSi3O8), inclusioni vetrose che si formano per fusione da impatto e rapida risolidificazione di minerali quali il plagioclasio.
Diciassette milioni di anni fa, quindi (la datazione è stata ottenuta mediante la misura dei gas nobili, quali Neon, Argon e Kripton, prodotti dalla interazione del meteorite con i protoni costituenti la radiazione cosmica), un ulteriore impatto, violentissimo, ha proiettato parte della roccia di cui ALH84001 faceva parte nello spazio.
Dopo un lungo peregrinare nel Sistema Solare, tale pezzo di roccia, delle dimensioni di 17 x 9.5 x 6.5 cm e di circa 2 kg di peso, è precipitato 13000 anni fa in Antartide, dove Roberta Score, volontaria dell’Antartic Search for Meteorites (ANSMET), lo ha raccolto il 27 dicembre 1984 ai piedi delle colline di Allan Hills.

I crateri in Hesperia Planitia e Sinus Sabeus probabile origine di ALH84001

Da uno dei due crateri in figura (in alto – 12°S, 243°O – il primo cratere candidato, in Hesperia Planitia, in basso – 14°S, 343.5°O – il secondo, in Sinus Sabeus) ha probabilmente dato origine al meteorite ALH84001.

Caratterizzazione mineralogica e provenienza del meteorite

Sin dall’inizio, questa “pietra” ha dato del filo da torcere agli studiosi. L’età di 4.5 miliardi di anni ottenuta con il metodo Ru/Sr, insieme al fatto che la matrice principale è costituita per il 98% da ortopirosseno, [(Mg, Fe)SiO3], l’ha fatta catalogare, un po’ superficialmente, come Diogenite, un gruppo di meteoriti basaltiche (cioè formatesi da roccia lavica) che si suppone siano frammenti dell’asteroide Vesta.

Presto, però, a questo primo risultato si andarono ad aggiungere una congerie di nuovi dati: innanzitutto, una certa percentuale di carbonati che risultano completamente assenti nelle Diogeniti, ma anche Ferro altamente ossidato (Fe3+), quando le Diogeniti presentano addirittura Ferro metallico, cioè assolutamente non ossidato. Questo fatto è di notevole importanza, poiché implica, per ALH84001, la formazione in un ambiente contenente ossigeno in quantità, mentre le Diogeniti si sono formate in assenza completa di quest’ultimo.

Inoltre, sono stati trovati anche solfuri costituiti da Ferro altamente ossidato (disolfuro di ferro o pirite, FeS2), quando le Diogeniti sono note per essere ricche di monosolfuro di ferro, FeS. Questo dato è stato illuminante: il disolfuro di Ferro è un costituente tipico delle meteoriti SNC, acronimo formato dalle iniziali di Shergotty, Nahkla e Chassigny, tre città nelle quali sono stati trovati i primi esemplari di questa rara classe di meteoriti basaltiche, che hanno un’accertata provenienza marziana. Inoltre, le inclusioni di maskelinite (altro carattere tipico delle SNC), inglobano spesso bolle di gas che, analizzate, mostrano una composizione isotopica perfettamente sovrapponibile a quella misurata dalle sonde Viking per l’atmosfera del pianeta rosso, in particolare, abbondanza di 15N rispetto al 14N, di 2H2O (cioè acqua pesante, formata da deuterio, isotopo dell’idrogeno) rispetto all’H2O, di un rapporto 129Xe/132Xe=2.4, ecc.

Accertata la provenienza marziana, non restava che cercare di stabilire, con un lavoro a dir poco certosino, da quale punto del pianeta potesse essersi staccato ALH84001. Una studentessa dell’Università dell’Arizona si assunse questo compito: dopo un anno di lavoro e l’analisi di oltre 42000 crateri, giunse a restringere il novero dei candidati a 23, due soli dei quali, però, di età superiore a 17 milioni di anni, quando ALH84001 ha iniziato il suo viaggio verso la Terra: uno in Hesperia Planitia (12°S, 243°O) ed uno in Sinus Sabaeus (14°S, 343.5°O).

Come si può osservare dalle loro coordinate, entrambi i crateri si trovano nell’emisfero meridionale, quello, cioè, che soddisfa la condizione del suolo più antico (non si dimentichi che la matrice principale di ALH84001 ha 4.5 miliardi di anni); inoltre, i due crateri si trovano in una zona che si ritiene fosse ricca d’acqua (da cui proverrebbero i carbonati) e sono elongati quel tanto che basta (impatto quasi radente) da permettere ai frammenti di acquistare l’energia sufficiente a superare la velocità di fuga di Marte.

Il ruolo dei carbonati

Spostiamo ora il discorso sulla vera notizia-bomba: la vita in AHL84001.
Per discutere di questo argomento bisogna considerare una delle caratteristiche più intriganti del meteorite marziano ALH84001, cioè la sua abbondanza in carbonati (5% in volume).
Queste sostanze, depositatesi all’interno delle fratture create nella roccia d’origine da un impatto verificatosi circa 4 miliardi di anni fa, oltre ad essere segni putativi di vita su Marte, sono state una continua fonte di sorprese per gli studiosi.

I carbonati ritrovati all'interno di ALH84001

I carbonati ritrovati all’interno di ALH84001.

La prima è stata la caratterizzazione della loro struttura, piuttosto peculiare (v. figura in alto): i carbonati si presentano come granuli di dimensioni variabili, in media di circa 30-60 micrometri (un micrometro, o micron, o μm, equivale ad un milionesimo di metro, cioè un millesimo di millimetro) di forma approssimativamente sferica che, in sezione, mostrano una parte interna di colore arancione (essenzialmente costituita da carbonato di Calcio e Manganese) ed una parte esterna simile al guscio di una cipolla, cioè formata da strati alternati chiari (carbonato di Ferro o siderite bianca, FeCO3) e scuri (carbonato di Magnesio o siderite nera, MgCO3). Nelle zone più esterne di questi glomeruli, poi, sono state scoperte inclusioni, delle dimensioni massime di circa 100 μm, di ossido di Ferro (magnetite, Fe3O4) e solfuro di Ferro (pirrotite).

Gli Idrocarburi Policiclici Aromatici (PAH)

L’importanza di queste strutture risiede nel fatto che è in loro vicinanza che, mediante tecniche di microscopia elettronica (dall’uso del microscopio elettronico a scansione a quello del microscopio a forza atomica) si osservano strutture approssimativamente ovoidali allungate simili a batteri terrestri; inoltre, l’interno dei glomeruli carbonatici si è dimostrato ricco (1 ppm, parte per milione) in PAH (Idrocarburi Policiclici Aromatici). Tali sostanze sono importanti perché la loro presenza si concilia benissimo con l’ipotesi batterica che il gruppo di McKay porta avanti.

I PAH, però, potrebbero avere diverse origini: essere il risultato dell’accumulo di polveri cosmiche da parte del meteorite durante i 17 milioni di anni di permanenza nello spazio interplanetario, essere il risultato di inquinamento
terrestre (i PAH sono il poco gradito “regalo” che ci lascia l’imperfetta combustione dei combustibili fossili, tipica, ad esempio, dei motori a scoppio, o l’incauta cottura di una bistecca sulla griglia), o, infine, essere il risultato della decomposizione di materiale organico derivato da un qualche tipo di attività batterica. Analizzando queste sostanze, alcune delle quali schematizzate in figura, si è arrivati ad escludere fermamente l’ipotesi di inquinamento terrestre; infatti, sulla Terra, i PAH di origine “umana” sono ricchi in naftalene e in Zolfo (il più comune è il benzotiofene), mentre tra i PAH di ALH84001 non sono stati ritrovati né il naftalene né il benzotiofene.

Analisi sull’abbondanza di PAH in relazione alla “profondità” della roccia hanno mostrato, poi, che essi tendono ad aumentare con la profondità, esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe nel caso di un inquinamento successivo alla caduta sulla Terra. Questo dato, già sufficiente, è ulteriormente rafforzato dal fatto che il meteorite risulta circa 1000 volte più ricco di PAH dei circostanti ghiacci antartici e dal fatto che altre meteoriti “ripescate” nella stessa zona non ne mostrano traccia.

L’ipotesi dell’arricchimento in PAH durante il soggiorno interplanetario, poi, è stata dimostrata falsa dalla scoperta di una abbondanza in 12C, rispetto al 13C, del carbonio costituente i PAH, segno (quasi) indiscutibile di attività
biologica. La coesistenza, poi, di magnetite, solfuro di Ferro e carbonati viene spiegata ancora una volta come il risultato di un processo biologico, molti esempi del quale si ritrovano sulla Terra.

Questo, però, fa diventare veramente critico, in grado di far pendere l’ago della bilancia verso l’ipotesi biologica o quella chimica-fisica, un altro fattore, cioè la temperatura alla quale i carbonati sono stati deposti; infatti, una temperatura molto alta implica la prevalenza di un meccanismo chimico-mineralogico, piuttosto che di uno biologico, mentre una temperatura di deposizione bassa, pur non essendo altrettanto determinante nell’escludere l’una o l’altra ipotesi, rappresenterebbe un bel colpo a favore di quella biologica.
A questo punto può iniziare una lunga lista di esperimenti volti a sostenere l’una o l’altra ipotesi. Cominciamo dalle teorie “calde”.

Deposizione ad alta temperatura

Con considerazioni prettamente chimiche e mineralogiche, i fautori della teoria della deposizione ad alta temperatura fanno notare come il fatto che il “core” dei granuli sia costituito da dolomite (MgCO3) e calcite (CaCO3), insieme
alla stratificazione esterna, sarebbe la prova di una reazione tra il pirosseno (costituente principale del meteorite) ed un eccesso di CO2 ad oltre 600°C. Gli autori di questa ipotesi suggeriscono che niente meglio di una buona serie di impatti di planetesimi possa fornire il surplus termico necessario a questa reazione chimica.

Addirittura, c’è chi sostiene, non senza addurre ragionevoli motivazioni, che la formazione delle fratture nella matrice pirossenica della roccia di cui faceva parte ALH84001 possa essere contemporanea (nel senso di frutto di un unico evento) alla deposizione di lave carbonatiche all’interno delle stesse, suggerendo un unico evento, cioè un impatto meteorico, come causa sia delle fratture che della deposizione dei carbonati.

Sono stati compiuti, poi, esperimenti in cui si osservava la deposizione di globuli simili a quelli di ALH84001 facendo reagire una soluzione ricca in calcio, magnesio e ferro, addizionata ad anidride carbonica, ad una temperatura di 150°, ottenendo una disposizione simile a quella osservata nel meteorite marziano; in altri si osservava la reazione di basalti terrestri con acqua ricca di anidride carbonica in condizioni variabili di temperatura (tra 20 e 400°C) e con una pressione parziale di anidride carbonica (pCO2) da 1 a 1000 atmosfere (a fronte di una pressione parziale di CO2 su Marte pari a 0.006 atmosfere), ottenendo però risultati che da un lato possono favorire una delle due ipotesi e
dall’altro l’altra!

Deposizione a bassa temperatura

Anche le ipotesi che coinvolgono basse temperature, le ipotesi “fredde”, nella deposizione dei carbonati non sono poche. Si va dal trattamento con acidi di alcuni carbonati estratti dal meteorite a temperatura di 80°C, pervenendo a risultati compatibili con la deposizione a bassa temperatura, fino a tests che hanno investigato il campo magnetico residuo delle rocce magnetizzabili contenute nel meteorite.

Come è noto, durante il raffreddamento di rocce contenenti minerali magnetizzabili, questi tendono a magnetizzarsi conservando l’intensità e la direzione del campo magnetico presente nel luogo nel quale si vanno raffreddando. Un esempio: è noto che tra le Americhe da un lato e l’Europa e l’Africa dall’altro è attiva la dorsale medio-atlantica, una “ferita” della crosta terrestre eruttante continuamente roccia fusa; questa, raffreddandosi, compie due azioni importanti: primo, spinge ai lati la lava emessa precedentemente e già raffreddatasi (“allargando”, quindi, il bacino atlantico); secondo, assume la direzione e l’intensità del campo magnetico in cui si va formando. Allontanandosi sempre di più dalla dorsale e misurando il campo magnetico residuo “impresso” in queste strisce di roccia è possibile verificare quante volte e per quanto tempo, sul nostro pianeta, si è avuta un’inversione del campo magnetico (passando da una polarità Nord-Sud ad una Sud-Nord e viceversa) negli ultimi 150 milioni di anni, l’età supposta dell’Oceano Atlantico.
Altra caratteristica importante è che ogni roccia magnetizzabile, a seconda dei minerali da cui è costituita, presenta una “temperatura critica” superata la quale il magnetismo che essa presenta viene azzerato, per poi tornare a formarsi durante il raffreddamento successivo con le caratteristiche del “nuovo” campo magnetico.

Torniamo al meteorite…

la pirrotite si è raffreddata sotto l’influenza di un campo magnetico di una certa intensità, mostrando nel contempo, in due zone adiacenti, un disassamento nelle linee di forza del campo magnetico residuo di oltre 70°. Questo sta ad indicare due cose: primo, che tale disassamento è avvenuto presumibilmente quando la roccia di cui il meteorite faceva parte ha subito il primo impatto (circa 4 miliardi di anni fa); secondo, che da quel momento la roccia non ha più subito episodi di riscaldamento a temperatura maggiore di 320°C (temperatura “critica” della pirrotite), poiché avrebbe perso questo disassamento acquistando un nuovo orientamento, questa volta uniforme in tutta la roccia.

Molti altri esperimenti sono stati prodotti dagli scienziati di tutto il mondo, alcuni dei quali molto recenti (di questi ultimi mesi) danno notevole risalto alla deposizione dei carbonati a bassa temperatura; l’ipotesi più interessante, però, è quella che vede i granuli dovuti all’evaporazione di un lago salato. Questa ipotesi sembra un pò l’uovo di Colombo e non è nemmeno tra le più recenti (risale al 1998), ma gli autori fanno notare come molte delle caratteristiche di AHL84001 sono compatibili con uno scenario di tipo evaporitico, sia per quanto riguarda il punto di vista mineralogico che per quello biologico. Su Marte, infatti, la Mars Global Surveyor ha trovato numerose evidenze di depositi evaporitici, senza considerare la presenza di diversi minerali di origine evaporitica (carbonati, solfati…) su altre meteoriti marziane ed il fatto che sono compatibili con questa ipotesi anche le misurazioni degli isotopi dell’ossigeno. Inoltre, questo scenario oltrepassa con relativa facilità problemi che le ipotesi di una deposizione dei carbonati ad alta temperatura non riescono a superare, quali la mancanza di silicati idrati e la finissima stratificazione dei granuli spiegata su.

ALH84001, presunti fossili di batteri

Qui sopra e in basso, presunti fossili di batteri ritrovati in ALH84001.

I batteri marziani

Aprendo questo fondamentale capitolo nella storia di ALH84001, bisogna subito dire che in molti sono propensi a pensare (e come dargli torto) che, senza l’annuncio di queste presenze, non sarebbero mai stati prodotti tanti sforzi, tanti lavori, sul meteorite.
I fossili di batteri marziani sono costituiti da strutture ovoidali che si trovano dove c’è ferro e zolfo (quindi all’esterno dei globuli) ed hanno dimensioni medie di 30 x 130 nm (un nanometro equivale ad un millesimo di micrometro, cioè ad un miliardesimo di metro); il loro volume è, quindi, circa 1/200 del volume dei più piccoli organismi terrestri conosciuti. Ovviamente, questo annuncio ha subito diviso la comunità scientifica in favorevoli e scettici. Questi ultimi, come logico, hanno subito prodotto una certa quantità di obiezioni.

Se ne sono quindi analizzate tre principali: la possibilità di un artefatto, cioè di un prodotto della preparazione del campione per l’analisi al microscopio elettronico a scansione; la possibilità di contaminazione da parte di batteri terrestri; il fatto che le dimensioni sembrano troppo piccole per delle strutture viventi. Molti studi hanno decisamente escluso un artefatto dovuto alla preparazione del campione.

La possibilità di contaminazione, invece, è piuttosto importante, soprattutto alla luce di alcuni lavori nei quali si sottolinea la contaminazione sia su ALH84001 che su altre meteoriti, di origine marziana e non. In ALH84001 sono state infatti trovate comunità che ricordano, per morfologia e distribuzione, colonie di Attinomiceti terrestri, comuni tra i ghiacci e le rocce antartiche. Bisogna anche considerare, però, che questi studi non escludono la presenza di fossili di batteri su ALH84001, ma sottolineano la difficoltà di distinguere, eventualmente, tra forme terrestri e marziane e, quindi, l’importanza di essere cauti nell’attribuire l’appartenenza di un fossile al nostro pianeta o a Marte.

In una meteorite non marziana caduta nel deserto del Sahara nel 1931 (la Tatahouine), invece, sono stati ritrovati batteri, sia vivi che morti, simili a quelli che vivono nel suolo del deserto, ma con una importante caratteristica: i batteri morti erano tutti molto piccoli, da 2 a 3 volte più piccoli dei vivi, e ciò ha portato ad ipotizzare che la diminuzione delle loro dimensioni dipendesse dalla scarsità di nutrienti all’interno di un ambiente quale un meteorite.

ALH84001, altri presunti fossili di batteri

Ciò, quindi, indica che l’ipotesi delle piccole dimensioni deve essere usata con cautela nell’escludere un’origine biologica delle strutture simili a batteri in ALH84001. L’obiezione delle loro troppo piccole dimensioni sembra cadere, inoltre, anche sotto i colpi di ritrovamenti dei primi anni ’90 di batteri di simili dimensioni in materiale sedimentario del Pleistocene (periodo geologico compreso tra 11.000 ed 1.8 milioni di anni fa, quello, per inciso, in cui si è formata la Pianura Padana). Anche in questo caso, però, sussistono seri dubbi, in quanto l’autore della scoperta, R.L. Folk, non è riuscito a testare questi supposti nanobatteri con metodi chimici e biologici (molti dei suoi nanobatteri, poi, sembra si siano dimostrati artefatti o addirittura complessi inorganici). Va comunque detto che i ritrovamenti di batteri molto più piccoli del comune, i nanobatteri appunto, si sono moltiplicati.

Altre critiche all’ipotesi di batteri marziani vengono da considerazioni su cristalli di magnetite (un ossido di ferro) scoperti nelle vicinanze di questi batteri. Secondo McKay ed il suo gruppo, questi sarebbero il prodotto dei batteri
marziani (sulla Terra vi sono numerosi esempi di batteri che producono cristalli di magnetite per orientarsi nel campo magnetico terrestre), soprattutto perché in associazione con questi si trovano depositi di solfato di ferro, proprio come avviene in diverse comunità batteriche terrestri. Tra le molte obiezioni a questo punto di vista rientrano quelle secondo cui i batteri non sarebbero altro che essi stessi depositi di magnetite (secondo altri addirittura di pirosseno), mentre per altri le caratteristiche di questi depositi (come, ad esempio, una non costante ed uniforme struttura e distribuzione) ne farebbero escludere l’ipotesi di una deposizione da parte di microorganismi.

CONCLUSIONE

In tutti questi anni McKay ed il suo gruppo si sono ostinati a ripetere una frase pronunciata già all’epoca della famosa conferenza stampa alla NASA:

Nessuna delle nostre osservazioni è in se stessa conclusiva per quanto concerne l’esistenza, in passato, di vita su Marte. Ci sono infatti diverse spiegazioni per ognuno di questi fenomeni se presi individualmente, ma quando questi fatti vengono esaminati collettivamente, in particolare dal punto di vista della loro chiara associazione spaziale, non possiamo che concludere che rappresentano l’evidenza di un tipo primitivo di vita su Marte“.

Tutto il lavoro sperimentale e teorico che a partire da quest’annuncio è stato prodotto, poi, non sembra conclusivo né nel senso di rifiutare, né nell’accettare l’ipotesi di vita su Marte.
Questa, quindi, resta in piedi; certo un po’ scossa e ridimensionata rispetto ai primi tempi ma, e questa è un’opinione abbastanza diffusa, in grado di essere con molta probabilità confermata da studi mirati svolti in loco, sulla
superficie stessa del pianeta rosso.

(Piter Cardone – Pubblicato su “AstroEmagazine” n. 12, Dicembre 2000 – Gennaio 2001, pagg. 63-67)