Vista prospettica 3D della parte occidentale di Eistla Regio, sulla superficie di Venere (Magellan Team, NASA – Jet Propulsion Laboratory).

Si è spesso sentito definire Venere e la Terra come pianeti gemelli. In effetti, sono diversi i parametri fisici simili tra i due pianeti, mentre è diverso il destino al quale sono andati incontro.
La Terra è un pianeta lussureggiante, verde, ricco di acqua, mentre Venere è invece caldissimo, senza acqua, con un’atmosfera ricca di acido solforico e con una temperatura superficiale alla quale il piombo fonde.
Gli scienziati si interrogano continuamente sul perché i destini dei due pianeti siano stati tanto diversi e la domanda fondamentale alla quale tentano di dare una risposta è essenzialmente: può bastare qualche manciata di milioni di km in più di vicinanza al Sole o, in generale, ad una stella per causare un’evoluzione planetaria così diversa?

Immagine in falsi colori di Venere alla longitudine 0 Est

Vista globale a falsi colori di Venere creata a partire dalle immagini radar Magellan centrate a 0 gradi E di longitudine, 0 latitudine. Il colore è basato sulle immagini dei Lander Venera 13 e 14. Le lacune nei dati sono state colmate con i dati Pioneer Venus Orbiter. Il diametro di Venere è leggermente inferiore a quello della Terra, circa 12.100 km (fonte: comunicato stampa Magellan P-39570).

La spiegazione prevalente sulle motivazioni che hanno portato alle condizioni attuali su Venere è quella dell’”effetto serra galoppante”, che si innesca quando, per un motivo o per un altro, un pianeta comincia a rilasciare nello spazio meno energia di quanta ne assorbe dal Sole, arrivando, in breve tempo (geologicamente parlando) a sviluppare un’altissima temperatura al suolo.
Studiando tale fenomeno, quindi, si possono accumulare dati in grado di “tarare” modelli matematici di previsione che aiutino la comprensione di tali problematiche. Ed è quello che, tra gli altri, sta facendo un team di ricercatori dell’Ames Resarch Center della NASA.

L’effetto serra (intendendo qui quello sviluppato naturalmente da un ecosistema, senza apporti esterni dovuti, ad esempio, alle attività umane) si sviluppa quando il vapore acqueo (un efficiente gas serra) prodotto dall’evaporazione degli oceani raggiunge la troposfera.
Il vapore acqueo agisce come una coperta termica, lasciando passare la radiazione elettromagnetica proveniente dal Sole ma impedendo che la radiazione infrarossa proveniente dalla Terra venga irradiata nello spazio, e contribuendo ad aumentare, quindi, la temperatura al di sotto dello strato di vapore.

I dati che i ricercatori hanno raccolto indicano che se la temperatura superficiale degli oceani non supera un certo valore soglia (circa 30 gradi) il fenomeno è omeostatico, cioè si autoregola senza evolvere verso un effetto serra galoppante, come accade se tale soglia viene invece superata. In particolare, si è osservato che in alcune zone dell’Oceano Pacifico ci sono continuamente “inneschi” di effetto serra galoppante, ma tali “punti caldi” vengono tenuti a bada da fenomeni di autoregolazione atmosferica da parte del pianeta Terra (quale migliore esempio di azione da parte di GAIA, il superorganismo-pianeta dell’ipotesi di Lovelock?), quali la copertura nuvolosa e l’aumento dell’umidità, a circa 10 km al di sopra del punto caldo, di circa 3-4 volte i valori normali (dal 20% circa ad oltre il 70%): sembra siano proprio tali regioni più secche a stabilizzare questi abbozzi locali di effetto serra galoppante.

Come detto, questi dati servono a realizzare modelli affidabili di previsione che possano essere utilizzati sulla Terra; ad esempio, variando nel modello la quantità ed il tipo di gas serra si può prevedere con un certo grado di sicurezza (dipendente dall’accuratezza del modello) l’effetto delle attività umane sul clima. Non solo: possono essere anche utilizzati per spiegare perché pianeti che all’atto della loro formazione erano ricchi d’acqua siano ora mondi completamente diversi, oppure per prevedere le zone di abitabilità su altri sistemi planetari.

(Piter Cardone – Pubblicato su “AstroEmagazine” n. 24, Giugno 2002, pag. 13)