Gli equipaggi dell’Apollo 1 (a sinistra) e degli Shuttle Challenger (in alto a destra) e Columbia (in basso a destra) che, come recita la targa dedicata al primo equipaggio “diedero la loro vita al servizio del loro paese per la continua esplorazione della frontiera finale dell’umanità. Non siano ricordati per la loro morte, ma per gli ideali per cui hanno vissuto”…

Se c’è un periodo realmente maledetto per la NASA e per l’astronautica in generale, beh questo è la settimana che va dal 27 gennaio al 1 febbraio. Tra il 27 gennaio 1967 ed il 1 febbraio 2003, infatti, una serie di incidenti portarono alla perdita di interi equipaggi. Alla fine si pianse la perdita di 17 astronauti, donne e uomini…

27 GENNAIO 1967

Il 27 gennaio è un giorno di cui parlo sempre nelle serate MiticheStelle, sia perché c’è una particolare stella in Cassiopea che mi dà l’occasione di farlo, sia perché non c’è posto e momento migliore che in una serata sulle stelle per celebrare chi, per il progresso della scienza e dell’umanità e per avvicinarci ad esse di un altro piccolo passo, ha offerto il sacrificio più alto.
In quel giorno di fine gennaio del 1967 era in programma un banalissimo test a terra, in vista di un volo orbitale previsto per l’ultima settimana di febbraio. Sulla piattaforma di lancio 34 di Cape Canaveral, la capsula AS-204 – dopo l’incidente ribattezzata Apollo 1 su richiesta delle vedove, soprattutto di Betty Grissom – era in cima ad un razzo Saturn scarico di carburante. E forse fu proprio l’idea che in un test a terra senza carburante non potessero esserci pericoli che rese così tragico l’incidente: non c’erano infatti squadre di soccorso, non c’erano medici, non c’erano protocolli di sicurezza…
La capsula aveva a bordo un equipaggio di tutto rispetto. Il pilota comandante Virgil “Ivan” Grissom era infatti uno dei Mercury Seven, ed aveva già volato nella Mercury 2 (il secondo volo suborbitale statunitense in assoluto dopo quello di Alan Shepard) e nella Gemini 3. Vi era poi il pilota senior Edward White, il primo americano in assoluto a fare una “passeggiata spaziale” durante il volo Gemini 4, ed il pilota Roger Chaffee, il più giovane astronauta NASA con i suoi 31 anni.

Le targhe commemorative dell'Apollo 1 alla base del complesso 34 di Cape Canaveral

Un corto circuito, si seppe poi, causato dall’usura dell’isolante di un cavo elettrico dovuta alle ripetute aperture e chiusure del portellone di accesso della capsula provocò il disastro. Una semplice scintilla, che nell’atmosfera di ossigeno puro della cabina non diede agli astronauti scampo alcuno. In poco meno di venti secondi, come certificò l’autopsia, i tre morirono soffocati per le alte concentrazioni di monossido di carbonio, e fu vano ogni loro tentativo di aprire il portello, che all’epoca poteva essere aperto solo dall’esterno.
Nei 20 mesi che passarono prima che il programma riprendesse, nell’ottobre del 1968, la capsula venne interamente riprogettata: fu riprogettata l’apertura del portello, fu eliminato l’uso dell’ossigeno puro pressurizzato, furono riprogettate le tute – erano in nylon, assolutamente non ignifugo, e si fusero parzialmente con i sediolini della capsula – furono rivisti i liquidi usati negli impianti idraulici – anch’essi non ignifughi – e fu riprogettato l’intero impianto elettrico, con particolare attenzione all’isolamento degli oltre 50 km di cavi. In totale, furono risolti quasi 1500 “problemi” sui 20.000 segnalati nell’inchiesta avviata dopo l’incidente, e fu anche prevista l’assidua presenza di squadre di pronto intervento di emergenza per ogni test, innalzando il livello della sicurezza.
Sembra oltremodo cinico e triste dirlo, ma quell’incidente contribuì in maniera decisiva allo sbarco dell’uomo sulla Luna due anni e mezzo dopo, sia per la sicurezza raggiunta che, come ammisero in tanti, per lo scatto d’orgoglio legato al ricordo degli amici, prima che dei colleghi, dell’Apollo 1. Alla fine del programma Apollo, infatti, gli astronauti Grissom, White e Chaffee furono gli unici a rimetterci la vita, e sfortuna volle che successe senza neanche volare… Ora sono ricordati da due targhe su uno dei pilastri della piattaforma di lancio 34 e la NASA celebra “The Day of Remembrance” ogni 27 gennaio. Sono inoltre ricordati…sulla Luna: l’Apollo 11 ha infatti lasciato sul nostro satellite lo stemma della missione…

Le fasi iniziali della rottura dell'O-ring nel booster di destra durante il lancio dello Shuttle Challenger

28 GENNAIO 1986

19 anni dopo l’incidente dell’Apollo 1, il 28 gennaio 1986, lo Shuttle Challenger decollava da Cape Canaveral con 7 membri d’equipaggio. Visti i precedenti 24 lanci senza problemi, la NASA pensò che fosse arrivato il momento di imbarcare un civile, e tra i tanti candidati fu scelta un’insegnante, Christa McAuliffe, che avrebbe dovuto tenere dallo spazio una lezione agli studenti di tutto il mondo. Proprio per questo motivo, al lancio della missione STS-51-L fu data risonanza mondiale, e in mondovisione – ho ancora i brividi a ricordare – si assisté ad una gigantesca esplosione poco più di un minuto dopo il lancio, che avvenne nel tardo pomeriggio, ora italiana. Contrariamente a quanto si pensa, la navetta non esplose, ma fu costretta a ruotare dal comportamento anomalo del burster di destra, che impattò anche con il serbatoio centrale e con l’ala destra della navetta. Tale rotazione, in un momento del lancio in cui la velocità di salita era praticamente al massimo e si era ad oltre 14 mila metri di altezza, provocò la quasi totale disintegrazione della navetta e del serbatoio centrale dovuta alle forze aerodinamiche in gioco. L’enorme palla di fuoco che si vide non fu quindi dovuta alla navetta o al serbatoio, ma dall’accensione esplosiva del carburante. Ricordo che nei primi momenti dopo l’esplosione si pensò anche che qualcuno era riuscito a salvarsi (c’erano delle sottilissime scie di fumo che cadevano verso il basso, come se qualcuno fosse riuscito a lanciarsi), ma purtroppo ciò non era possibile in quanto non c’era nessuna procedura di lancio possibile per gli astronauti.
Il vero dramma, a cui non si è potuto dare una risposta definitiva, fu nella cabina dell’equipaggio. Essa probabilmente sopravvisse quasi integra e nei video si vede anche proseguire la sua traiettoria parabolica di caduta libera verso l’oceano, e le indagini mostrarono che almeno tre dei sette astronauti a bordo erano coscienti dopo la disintegrazione dell’orbiter.

Non si è mai potuto stabilire con certezza se l’equipaggio perse conoscenza a causa della depressurizzazione a quella quota o a causa dell’impatto ad oltre 300 km/h con l’acqua dell’intera cabina (più di 200 G, molto oltre i limiti di resistenza umani e strutturali), che fu poi ripescata gravemente schiacciata dal fondo dell’oceano.
La commissione che indagò sull’incidente, composta anche da Neil Armstrong (il primo uomo a camminare sulla Luna) e da Richard Feynman (fisico teorico e premio Nobel tra i padri della meccanica quantistica, che diede un contributo decisivo), scoprì in seguito che a causare l’incidente fu una guarnizione ad anello, del costo di pochi dollari, che doveva isolare due piccole sezioni sovrapposte del booster. Avete presente le guarnizioni ad anello all’interno delle caffettiere? E come sono belle ed elastiche appena messe e come invece sono dure e friabili dopo molto uso? Bene, l’esempio calza a pennello: queste guarnizioni non erano mai state testate sotto i 10°C, e la notte precedente la temperatura era scesa sotto lo 0 ed era di 2°C al lancio. Il freddo aveva causato una perdita di elasticità e delle doti di tenuta dell’O-ring, che già al momento dell’accensione, ancora sulla rampa, mostra una fuoriuscita di fumo nero che diviene sempre più evidente nei primi momenti del lancio, segno che la guarnizione si stava carbonizzando. Alla fine, la perdita di tenuta della guarnizione aveva causato una fiammata da uno dei boosters laterali che, a sua volta, aveva dato il via alla serie di eventi che si conclusero con l’urto del razzo di destra con il serbatoio centrale e la navetta e la disintegrazione aerodinamica delle strutture.
I voli delle navette Shuttle Atlantis, Discovery e Columbia ripresero oltre due anni e mezzo dopo…

1 FEBBRAIO 2003

Veniamo all’ultimo incidente di questa triste carrellata. 17 anni dopo il disastro del Challenger, il 1 febbraio del 2003 si chiude quello che passerà agli annali come il “black week” della NASA con un ennesimo incidente, questa volta al Columbia. La missione è la STS-107, partita il 16 gennaio. 82 secondi dopo il lancio, come si vide in alcuni video, dal serbatoio centrale si staccò uno strato di isolante termico grande quanto una valigia, del peso stimato di circa un chilo e mezzo, che impattò l’ala sinistra dello Shuttle, provocando un’ammaccatura di diversi centimetri di larghezza e profondità.
L’incidente era già successo, più di una volta (ci sono almeno 5 casi accertati), ma fu gravissimo nel secondo lancio post Challenger, ad inizio dicembre 1988, protagonista l’Atlantis. La missione era la STS-27, una missione militare per la messa in orbita di un satellite spia, quindi “classificata”. Ma il comandante di allora, Robert Gibson, racconta che a causa di un pezzo di schiuma staccatosi durante il lancio e finito sul lato destro della navetta, in totale saltarono via oltre 700 piastrelle dello scudo termico, fin quasi al bordo d’attacco dell’ala destra, e sotto una di esse, al rientro, si fuse quasi per intero una pesante placca metallica. Una volta a terra, anche chi aveva minimizzato il problema dopo le indagini in orbita – per la verità fu fatto un “sopralluogo” con il braccio robotico e una videocamera che restituiva però immagini molto granulose e pixelate, per cui non fu possibile essere certi della reale entità del danno – dovette ricredersi ed ammettere la portata potenzialmente disastrosa dell’incidente. Gibson ebbe a dire che in un altro punto della navetta, quel “buco” nello strato isolante avrebbe potuto distruggere l’intero Shuttle, e a quel punto, due soli voli dopo il disastro del Challenger, il programma sarebbe stato definitivamente chiuso.
Al Columbia successe la stessa cosa, forse addirittura in misura minore rispetto quanto accadde all’Atlantis, ma purtroppo in un punto più delicato, al bordo d’attacco dell’ala sinistra.
Quando, nella sua discesa, si trovò sul Texas a 64 km di altezza e viaggiando oltre mach 19 (oltre 23.000 km l’ora), dal punto danneggiato sul bordo di attacco dell’ala si staccò una mattonella dello strato isolante. Fu il frammento del Columbia recuperato più a ovest. Ciò causò un foro di 15-25 cm di diametro che permise ai gas caldi – oltre 1600° C – generati dall’interazione con l’atmosfera al rientro, di entrare nella struttura della navetta e distruggerla, meno di 20 secondi dopo. Il Columbia si spezzò in vari frammenti sui cieli del Texas, uccidendo sul colpo (questa volta vi furono ben pochi dubbi) i 7 astronauti. Ancora, un fermo di due anni e mezzo prima di riprendere con i voli, che terminarono nel luglio 2011 con l’ultimo volo dell’Atlantis, missione STS-135.

I detriti dello Shuttle Columbia dopo la distruzione in volo della navetta
Il distacco della schiuma dal serbatoio centrale e l'impatto successivo sull'ala sinistra dello Shuttle Columbia
Dan Bell del comitato di indagine CAIB misura il danno su un modello del bordo di attacco dell'ala del Columbia in un test a terra

Nell’immagine qui sopra si vede Dan Bell, uno dei membri del Comitato di indagine, che misura il foro creato su un modello identico del bordo di attacco dell’ala del Columbia da un campione di schiuma delle stesse dimensioni e peso di quello realmente staccatosi durante il lancio, “sparato” in un test a terra alla velocità di 850 km/h. Il danno è assolutamente evidente… Riguardando i filmati dei lanci precedenti, il Comitato d’indagine valutò che i distacchi di schiuma si erano verificati in circa l’80% dei voli, e molti erano stati scoperti dal comitato stesso e sfuggiti ai tecnici NASA!
Come per l’Apollo 1, il cui stemma è stato lasciato sulla Luna dagli uomini dell’Apollo 11, anche per il Columbia c’è una targa commemorativa al di fuori del nostro pianeta. Quattro mesi dopo il disastro, infatti, partiva alla volta di Marte il rover Spirit, una delle missioni più longeve e ricca di risultati e soddisfazioni che hanno calcato il ferruginoso suolo marziano. Essa giunse su Marte quasi esattamente 11 mesi dopo il disastro, il 3 gennaio 2004, e atterrò nel cratere Gusev. L’area fu immediatamente battezzata Columbia Memorial Station e da qui, a circa 3 km, si intravedevano delle alture, chiamate Columbia Hills. Spirit le raggiunse a “sol 159”, 163 giorni dopo l’atterraggio (un giorno, “sol” su Marte dura 24 ore e 37 minuti). Ed è lo stesso Spirit un vero e proprio memoriale dello Shuttle Columbia, portando con sé, dietro l’antenna ad alto guadagno, una placca commemorativa.
L’amministratore della NASA, Sean O’Keefe disse: “Mentre i membri del team guardavano Marte attraverso gli occhi di Spirit, il memoriale del Columbia è apparso nelle immagini rimandate a Terra, come giusto tributo al loro spirito e alla loro dedizione. Spirit porta con sé il sogno di esplorazione che i coraggiosi astronauti del Columbia avevano nei loro cuori. Avventurarsi nello spazio, nell’ignoto, è una chiamata ascoltata solo dai più coraggiosi”.

Concentrati in pochi giorni, dal 27 gennaio al 1 febbraio, la NASA conta 17 astronauti caduti nel compimento del loro dovere, nel compimento di un mestiere tanto affascinante quanto pericoloso, un mestiere che sposta l’asticella dello sviluppo tecnologico e scientifico dell’umanità intera sempre un po’ più avanti, ma che alle volte pretende in cambio il tributo più alto, più triste…